giovedì 20 aprile 2017

l’Eucaristia ci salverà

Il card. Caffarra: «Fino a quando sulle nostre spirituali rovine sarà celebrata l’Eucaristia, esse potranno risorgere


L’attuale arcivescovo emerito di Bologna — nonché profondo e acuto teologo — nella festa di sant’Agostino 2016 lanciò un accorato appello ai cristiani fedeli affinché non si scoraggino nel deserto spirituale e nella confusione che contraddistinguono l’attuale frangente della vita della società e della Chiesa pubblicata dalla benemerita rivista  Cultura e Identitàn.13 del 30-9-16.

Card. Carlo Caffarra
 Eccellenza venerata e carissima; Signor Sindaco di questa città splendida per storia, arte, e scienza; Gentili Autorità Civili e Militari, la cui presenza onora la celebrazione: considero grande dono fattomi dal Signore celebrare questa Santa Eucaristia presso le spoglie mortali di Agostino, Padre della Chiesa e dell’Occidente. Devo questo dono alla benevolenza del Vs. Ecc.mo Vescovo, giovane in età ma non in sapienza. Grazie, fratello carissimo. 
1. Cari fratelli e sorelle, le tre letture appena proclamate nel loro insieme ci hanno presentato la realtà della Chiesa nella sua condizione storica.
La Chiesa, come ci viene detto nella prima lettura, è l’unità umana ricostruita dall’obbedienza al-l’insegnamento degli Apostoli e dalla “frazione del pane”, cioè dalla celebrazione eucaristica. L’espressione inequivocabile dell’unità riedificata dalla fede e dal Sacramento, è la scomparsa delle categorie “mio-tuo”: «tenevano ogni cosa in comune».
Se dalla prima lettura passiamo alla pagina evangelica, la presentazione della Chiesa diventa drammatica. Accanto all’amabile ed attraente figura del Buon Pastore, si muovono lupi rapaci. Essi si sono introdotti nel gregge del Signore “per rapire e disperdere”; e di fronte ai lupi vi sono pastori-mercenari che fuggono, impauriti dal pericolo.
Ma la seconda lettura è ancora più drammatica. Essa preannuncia per la Chiesa «un giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina […] rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» [2Tm, 4, 3-4]. Cari amici, il contrasto non poteva essere più violento: una Chiesa costruita sull’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli — una Chiesa percorsa dal «prurito di udire qualcosa» [ibid., 4, 3] di diverso, dando ascolto ad affabulatori, «secondo le proprie voglie» [ibidem].
A questo punto non dobbiamo commettere l’errore di intendere la Parola di Dio in senso cronologico, come se ognuna delle tre letture narrasse periodi storici diversi della Chiesa: ad una Chiesa santa ed immacolata degli inizi succede a lungo tempo una Chiesa corrotta e mondana. No, non è questo che la Parola di Dio vuole dirci. Che cosa allora? E cominciamo allora ad andare alla scuola del vostro Santo Compatrono, il quale, in un testo bellissimo, risponde alla nostra domanda.
Agostino commenta il testo biblico che narra la misteriosa lotta tra Giacobbe e l’Angelo. Da essa il padre del popolo ebraico esce benedetto da Dio, ma azzoppato per tutta la vita. Scrive dunque Agostino: «la parte lesa di Giacobbe rappresenta i cattivi cristiani, perché nello stesso Giacobbe ci sia e la benedizione e lo zoppicare […]. Ora la Chiesa zoppica. Poggia solidamente su un solo piede, l’altro è invalido»

[1]. La Chiesa della quale parla la prima lettura è la stessa Chiesa della quale parla Paolo nella seconda lettura. La Chiesa vera e la Chiesa — chiamiamola così — del quotidiano è la stessa realtà; è la stessa Chiesa quella che, come Giacobbe, poggia saldamente su un piede e sull’altro zoppica. Un grande scrittore inglese ha detto: «Per i grandi santi e per i grandi peccatori c’è la Chiesa Cattolica; per la gente dabbene basta la Chiesa Anglicana»[2].
«Ecco perché — scrive Agostino — la Chiesa di Cristo ha fedeli saldi nella fede, ma ha pure fedeli tentennanti, e non può non essere senza quelli stabili nella fede, né senza quelli instabili»[3].

2. Come dobbiamo vivere dentro alla nostra casa che è la Chiesa, nella quale, come ci ha appena detto Agostino, ci sono cristiani forti nella fede e cristiani deboli?
La Parola di Dio ascoltata risponde a questa domanda, rivolgendosi distintamente a noi pastori e a voi fedeli.
2.1 A noi pastori. «Carissimo […] annunzia la Parola, insisti in ogni occasione opportuna ed inopportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina […] compi la tua opera di annunciatore del Vangelo». Quali parole tremende sono rivolte a noi pastori! «Voi» — dice Agostino, rivolto a voi fedeli «ascoltate[le] con attenzione, noi [le] ascolteremo con tremore […]. Quanto a voi ascoltate come pecore di Dio e osservate come Dio vi abbia posto al sicuro. Qualunque sia il comportamento di chi vi sta a capo, cioè di noi, voi state sempre al sicuro per la sicurezza che vi ha donato il Pastore d’Israele. Dio non abbandona le sue pecore»[4].
Le nostre città, la nostra nazione, la nostra Europa stanno attraversando una crisi mortale. La cifra della loro agonia è il freddo inverno demografico che stiamo attraversando. La parola che Dio rivolge a noi pastori ci costringe ad alcune domande: stiamo compiendo l’opera di annunciare il Vangelo o ci accontentiamo di esortare le persone a buoni sentimenti morali, quali per esempio tolleranza, apertura, accoglienza? Non dobbiamo essere sordi al vero bisogno, alla struggente necessità che abita nel cuore di uomini e donne che vivono con ansia i giorni cupi e tristi che stiamo attraversando. Non dobbiamo, noi pastori, essere sordi all’angoscia che abita nel cuore di padri e madri, che pensano con paura al futuro dei loro bambini. È necessario che i pastori della Chiesa testimonino, dicano che dentro ogni istante, dentro ogni evento abita una Presenza, un Ospite che guida tutto ciò che accade al bene di coloro che Dio ama.
 Fino a quando sulle nostre spirituali rovine sarà celebrata l’Eucarestia, esse potranno risorgere. Le pie esortazioni morali lasciamole ad altri.
Quando il 24 agosto 410 Alarico I re dei Visigoti [370 ca.-410] saccheggiò Roma, nello sconcerto generale — era dal tempo di Brenno [?-dopo 390 a.C.] che non accadeva — Girolamo [347-419/420)] scrisse: «[...] è occupata la città che aveva occupato il mondo intero»[5]. Ed aggiunge con un’immensa angoscia: «in una sola città tutto il mondo è perito». Girolamo non vedeva più futuro.
Ben diversa fu la reazione di Agostino. Egli non soffre meno per le notizie che gli arrivano da Roma: […] su tutte abbiamo gemuto, spesso abbiamo pianto, siamo appena riusciti a consolarci»[6]. Ma egli portò a compimento La Città di Dio, vera pietra miliare della nostra civiltà. Il santo vescovo insegnò ai suoi fedeli il modo giusto di porsi dentro la storia; e dentro alle rovine dell’Impero gettò i semi di una nuova civiltà.
Ciò che desiderava, ciò che Agostino voleva, era trasmettere vera speranza, e proprio in un momento in cui tutto l’Impero ed in esso la sua Africa stavano crollando. Sul suo letto di morte egli seppe che i Vandali erano entrati in città.
Trasmettere la speranza fondata sulla fede la quale, rinunciando al progetto di una vita ritirata fatta di preghiera e studio, lo fece capace di partecipare veramente all’edificazione della Chiesa e della città. La speranza che Agostino seppe trasmette era incrollabile, perché era certo che Dio era venuto a vivere la nostra tribolata vicenda umana, e dal di dentro l’aveva salvata. È questo Dio che ci dà il diritto di sperare, non un qualsiasi Dio, ma solo il Dio che ha un volto umano perché si è fatto uomo.
Il Signore dunque faccia tacere sulle nostre labbra di pastori parole vuote, e metta sulla nostra bocca parole vere.
2.2  La Parola di Dio si rivolge anche a voi fedeli. E vi dice: «Non siate tra coloro che non sopportano più la sana dottrina, ma per il prurito di sentire qualcosa di nuovo, non circondatevi di maestri che vi dicono ciò che voi avete piacere sentirvi dire, rifiutando di dare ascolto alla verità, per volgervi alle favole». Ma è Gesù che nel Santo Vangelo vi dice parole di consolazione. Egli vi dice: «Io sono la porta delle pecore […] se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà ed uscirà e troverà pascolo» [Gv 10, 9].
Ecco come le spiega Agostino. «Si può dire che noi entriamo quando ci raccogliamo nella nostra interiorità per pensare, e che usciamo quando ci esteriorizziamo mediante l’azione; e poiché, come dice l’Apostolo, è per mezzo della fede che Cristo abita nel nostro cuore, entrare per Cristo significa pensare alla luce della fede, mentre uscire per Cristo significa tradurre la fede in azione davanti agli uomini»[7]. Ecco, cari fedeli, che cosa vi dice il Buon Pastore: pensate alla luce della fede; traducete la fede in atti.
Concludo. In uno scritto contro i Manichei, Agostino ci rivela le ragioni per cui resta nella Chiesa. Eccole.
«Mi mantiene fermo [nella Chiesa] il consenso dei popoli e delle genti; mi mantiene fermo quell’autorità avviata dai miracoli, nutrita dalla speranza, aumentata dalla carità, confermata dall’antichità; mi mantiene fermo la successione dei Vescovi sulla stessa sede di Pietro […] fino al presente Sommo Pontefice; mi mantiene fermo infine lo stesso nome di Cattolica»[8].
Cari fedeli, ascoltate il vostro Compatrono. In questi momenti di grave incertezza mantenetevi fermi nella Chiesa. Abbiamo ragioni vere e belle per farlo. È in essa che incontriamo il nostro Salvatore.




[1] Sant’Agostino, Discorso 5, 8, trad. it., in Opera Omnia di Sant’Agostino, a cura della Nuova Biblioteca Agostiniana (NBA), Città Nuova, Roma, vol. XXIX, Discorsi 1-50. Sul Vecchio Testamento, 1979, pp. 94-95. La sottolineatura è mia.
[2] Cfr. «The Catholic Church is for saints and sinners alone. For respectable people, the Anglican Church will do» (Oscar Wilde, cit. in Richard Ellman (1918-1987), Oscar Wilde, Penguin, Londra 1988, p. 548).
[3] Sant’Agostino, Discorso 76, 3.4, in Opera Omnia di Sant’Agostino, cit., vol. XXX/1, Discorsi 51-85. Sul nuovo Testamento, 1982, p. 519.
[4] Idem, Discorso 46,1.2, ibid., vol. XXIX, cit., pp. 796.797.
[5] San Girolamo, Lettera a Principia, CXXVII,12; CSEL, t. LVI, p.154, 16].
[6] Sant’Agostino, Discorso sulla caduta di Roma, 6; PL 40, pp. 715-724.
[7] Idem, Commento al Vangelo di Giovanni 45,15, in Opera Omnia di Sant’Agostino, cit., vol. XXIV, Discorsi 341-400. Su argomenti vari, 1989, p. 913.
[8] Idem, Contro la Lettera di Mani detta del Fondamento 4.5, ibid., vol. XIII/2, Contro I Manichei II, p. 307.

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